“Sono fatto così”; “Non cambierò mai”; “Non c’è rimedio” .
E’ possibile che siano convinzioni di questo genere ad ostacolarci.
Altre volte ci sentiamo sfiduciati ed intimoriti.
Altre ancora pensiamo che esporsi ed affidare se stessi nelle mani di un estraneo possa essere vano ed inconcludente se non da stolti/fessi o semplicemente abbiamo il timore di sentirci in imbarazzo.
Un ulteriore scenario comune/ricorrente è quello di essere fermamente convinti che “risolvere i problemi da sé significhi essere forti” mentre chiedere aiuto sia segno di debolezza e fragilità. Aleggia ancora lo stereotipo che se “vado dallo psicologo sono malato”.
A questi si aggiunge il problema dell’impegno nei confronti della propria persona e del percorso che ci troviamo ad affrontare. Una tale scelta può non essere facile: la dimensione dell’impegno evoca il coinvolgimento e l’assunzione di responsabilità così come in altre scelte della nostra vita.
“Lavoro troppo” “Non ho i soldi” possono essere alcune delle reali o fantasmagoriche barriere che ci separano da questa scelta. C’è da chiedersi allora che cosa ci muova e a che punto stia la nostra intenzione, stiamo realmente investendo su noi stessi sul lungo termine?
Chiedere aiuto è un’abilità fondamentale che impariamo da bambini e riconoscere quando farlo e a chi chiedere fa la differenza. La diffidenza verso gli estranei è legittima e anche questo ce lo insegnano quando siamo bambini, per questo tra i miei valori adotto quello della trasparenza nel mostrare la mia storia professionale che potete leggere qui e nella sincerità con cui ammetto che questa non sia una garanzia e che ogni rapporto di fiducia e crescita va costruito insieme.
Conosco molte persone che avrebbero bisogno di un supporto che non chiedono aiuto e questo non le rende meno malate, ma solamente incapaci di prendersi cura di se stesse.
Inserisco uno scritto di Charls R. Swenson come esempio concreto di ciò che può avvenire nella nostra vita quando ci rivolgiamo a un professionista per rendere meno misterioso un processo che per ogni persona è unico e irripetibile.
Swenson racconta cos’è un processo di cambiamento. Lui voleva diventare un giocatore di basket ma rinunciò nella convinzione di essere troppo lento nella corsa. Ecco cosa accadde parlandone con il suo terapeuta.
<<Con il mio psicanalista ripercorsi i dolorosi dettagli del fallimento del mio sogno. Nel raccontagli la storia, gli raccontai come la mia lentezza fosse geneticamente determinata dai miei genitori, da cui avevo ereditato pesanti svantaggi biologici. Mi fece una strana domanda: “Cosa ti fa pensare di essere così lento?”. Risposi: “Perchè io ero lento! E sono ancora lento. I miei tempi nei cento, nei quattrocento metri (un quarto di miglio) o nel miglio sono imbarazzanti”. Fece una pausa e tornò a chiedermi: “Ma cosa ti fa pensare di essere così lento?” . Ero sorpreso e infastidito.
“Gliel’ho detto: io sono lento! Corro lentamente, lo dice il cronometro.” Mi ero pentito di aver portato quella tematica alla sua attenzione, avendo già avuto l’impressione che non avesse avuto alcun interesse per l’atletica. Dopo un’ altra pausa, ripetè per la terza volta: “Ma cosa ti fa pensare di essere così lento?”. A quel punto, non sapevo più come rispondere. Più che sorpreso adesso ero scioccato; la mia irritazione si era trasformata in vera e propria rabbia. In più cominciavo a nutrire dubbi nei suoi confronti. Non mi ascoltava? Stava cercando di farmi irritare? Stava avendo un ictus? Decisi che non avrei più affrontato l’argomento; mi faceva soltanto stare peggio.
Ci passai sopra. Tuttavia, fuori dalle mie quattro sedute settimanali di psicoanalisi, non ero affatto passato sopra l’argomento. Durante una delle mie sessioni settimanali di jogging che facevo per mantenermi in forma, e che prevedevano un tratto di corsa nel campo di atletica della Yale University (lo “lo Yale Bowl”, come sono soliti chiamarlo), notai un atleta che si allenava lì di frequente e che evidentemente prendeva la corsa molto sul serio. Mi feci coraggio mi avvicinai e gli chiesi: “ Ti vedo spesso qui ed è chiaro che sei un atleta professionista, al contrario di me. Ho sempre voluto essere più veloce nella corsa e, in passato, mi sono allenato moltissimo per riuscirci, ma senza risultati. Ti andrebbe di osservarmi mentre corro e di darmi qualche consiglio ?”.
Sembrò compiaciuto della domanda. Mi chiese di correre per 40 yard il più velocemente possibile. Nel corso delle settimane successive, per diverse volte a settimana, mi diede lezioni di corsa. Mi dava consigli, misurava i miei tempi e mi incoraggiava. Ciò che trovai particolarmente utile, oltre al suo impegno e il suo atteggiamento quasi devoto alla causa, era il fatto che mi desse consigli molto specifici.
“Sei alto quindi devi fare passi più corti.”
“Devi avere la sensazione che i tuoi passi siano davvero più corti.”
“Affonda le gambe nel suolo, come pistoni in un motore.”
“Guarda avanti, verso il traguardo, non voltarti a destra e sinistra.”
“Devi sporgerti in avanti mentre corri, quasi come se stessi per cadere di faccia; questo dirà alle tue gambe di aumentare la velocità.”
“Devi concentrarti soltanto sul percorso e devi continuare a ripeterti: più veloce più veloce più veloce.”
Misi in pratica i suoi consigli e mi allenai con ancora maggior impegno. Supportava i miei sforzi con i suoi consigli e, nell’arco di poche settimane, correvo più velocemente di quanto avessi mai fatto. Correvo un miglio in cinque minuti e trentacinque secondi, due minuti in meno di ogni altro miglio che avessi mai corso. A quel punto avevo quasi trent’anni ed era troppo tardi per iniziare una carriera alla National Basketball Association, ma era fantastico aver scoperto che potevo aumentare a tal punto la mia velocità. Nel frattempo non avevo più fatto parola dei mei tentativi e dei miei successi con il mio psicanalista. Ero ancora arrabbiato con lui per quella domanda insistente e per la sua incapacità di provare empatia nei miei confronti. Non volevo dargli l’impressione che quell’intervento mi avesse motivato. Di fatto la sua fastidiosa insistenza aveva piantato i semi del dubbio nella mia mente riguardo all’inevitabilità dei miei deficit come corridore. I suoi commenti mi avevano motivato a interrogarmi, mi avevano spinto a cercare e chiedere l’aiuto di un allenatore e, in ultima analisi, a correre più velocemente. Avevo ripensato più volte alla sua domanda insistente. Ovviamente non era uno stupido. Non penso veramente fosse insensibile ed era chiaro che non aveva avuto un ictus. Non penso neppure che stesse cercando di provocarmi. Conclusi che si stesse realmente chiedendo che cosa mi facesse pensare di essere così lento. Nel prestare ascolto alla mia “voce interiore”, deve aver percepito che io stesso ero perplesso riguardo alla mia mancanza di progressi nella corsa. Deve aver sentito, mentre ascoltava con il suo < terzo occhio>, un’ incrinatura nella mia convincente spiegazione “ genetica”. Non credo gli importasse se fossi realmente in grado di correre più velocemente; era interessato a come si era sviluppata la mia vita interiore e al modo in cui descrivevo e comprendevo me stesso. Aveva fatto quell’intervento perchè era riuscito a sentire, a percepire, una discrepanza nel racconto. Più passava il tempo più riflettevo su come ero stato capace di cambiare uno stile comportamentale così radicato, più mi era chiara la lezione: per cambiare avevo avuto bisogno di un analista e di un allenatore. Avevo avuto bisogno di una persona che prestasse attenzione alla mia storia con sufficiente attenzione ai dettagli, che mi ascoltasse con attenzione maggiore di ogni altra persona e che avesse il coraggio di mettere in discussione la mia convincente spiegazione. Avevo avuto bisogno di un’altra persona che fosse esperta nella meccanica della corsa, qualcuno che mi osservasse mentre correvo, che prestasse attenzione ai dettagli della corsa, che mi desse consigli, monitorasse i miei progressi e li rinforzasse positivamente. Forse sarebbe bastata una sola persona a ricoprire entrambi i ruoli non lo so. Tuttavia, ciò che mi colpì e che mi è rimasto impresso fino a questo momento è il messaggio che, in realtà, siamo capaci di cambiare pattern comportamentali molto radicati e che questo cambiamento potrebbe richiedere sia un “analista” sia un “allenatore”. >>